L’altra metà della festa
di Lorenzo Gigliotti
Matteo riporta nel suo Vangelo un invito di Cristo che agli spergiuri intimava: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno“(Mt 5,37). Ora, che proprio alla statua di questo Evangelista toccasse il destino di divenire un’ipostasi dell’ambiguità è fatto assai singolare. Di fatto c’è che nei primi anni del XVII secolo la basilica inferiore del Duomo di Salerno subì un radicale rimaneggiamento per cui la tomba del Santo, che prima era visibile dall’alto attraverso un’apertura nel pavimento del transetto della cattedrale, venne posta al centro della cripta, dividendo a metà questo ambiente che da un lato ospitò la zona di accesso al sottostante ipogeo e, dall’altro, divenne la navata della chiesetta per le celebrazioni delle funzioni di culto. Per consentire a tutti i fedeli presenti la vista frontale della statua del Santo, nel 1606 Michelangelo Naccherino realizzò due statue identiche poste di schiena tra loro sull’altare bifronte. Probabilmente è in quel momento che nasce la lettura popolare della scena che vede san Matteo, pur nella sua veste iconografica locale, come esempio di comportamento socialmente e umanamente disdicevole: l’uomo insincero è contraddistinto, nella vulgata, dal non avere una sola parola, una sola idea, una sola posizione di fronte a un evento. In altri termini l’uomo insincero è contraddistinto dall’avere due facce.
Che a questa lettura sfugga tutta la fenomenologia psicoanalitica del doppio (del perturbante), quella più pirandelliana dell’impossibilità di dirsi uno e quella nietzschiana di una verità morta insieme al dio, è chiaro e inevitabile; ma è singolare che un Santo, per giunta evangelista e martire, per via di una funzionalità architettonica escogitata per rendere più agevole il culto di un santo, diventi per i fedeli il simbolo bronzeo della menzogna, il luogo metonimico dell’ipocrisia.
Uno è l’alter ego dell’altro. Il raddoppiamento disorienta, non crea più relazione né trascendenza e i fedeli scelgono, per non inficiare le proprie azioni simboliche e rituali, a quale santo votarsi: a quello che guarda avanti (e cioè –a sentire Artemidoro-, che guarda al passato, a ciò che si trova davanti all’uomo, esposto alla sua vista)? o quello che volge lo sguardo all’indietro? (a ciò che è ignoto, al futuro, a ciò che si trova dietro le spalle, e non si può dunque vedere). Nella penombra della cripta ognuno avvia il proprio dialogo col suo santo e, per non avere dubbi, dimentica l’altro, il doppio (anche in tedesco doppio [zweifel] e due [zwei] hanno la stessa radice). Il diaballein, che fa sempre capolino.
Anche nelle fotografie di Rampolla qualcosa fa capolino sulla scena: luminarie tremanti, bagliori improvvisi, luci traballanti, scie di gesti, spettri luminosi, fiammelle sdoppiate, barbagli, faville, ignis fatuus: un insieme di fantasmi di luce che rimandano agli spiriti evocati sulle lastre dai medium e insieme alla definizione latina che Barthes dà della fotografia: imago lucis opera expressa; ossia: immagine rivelata (…) dall’azione della luce. Il festivo è assente dai volti, il festivo dell’immaginario, almeno.
Una devota che lancia i petali appare come un ologramma su un balcone che quella sera del 21 settembre forse era chiuso e disabitato. Il giovane cimbalista e il segaligno confratello di una congrega fissano inquieti l’obiettivo: percepiscono di non essere soli? Sanno di essere al centro di una danza di monachine? Una bambina vestita con l’abito della prima comunione dà le spalle all’obiettivo. Restiamo in attesa di vederla girare temendo di scoprire che forse non ha volto. Solo una figura è circonfusa di luce propria: un sacerdote, un alto prelato, appoggiato sul fondo di una massa opaca, effonde la sua grazia: non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere per fare luce a tutti quelli che sono nella casa (Mt 5,15). Per il resto, misteriosi aloni di luce confondono i volti sfocati dei membri delle paranze. La festa si consuma nel volto di un portatore, addobbato, come un fauno pompeiano, con tralci e fiori. Questa volta senza aura.
La Sontag scrive che l’ingresso nell’estetica fotografica dell’imperfezione formale e tecnica è servita “per spezzare la pacata equazione tra Natura e Bellezza” tanto che il senso della riproduzione fotografica non è più nella documentazione di un evento ma nella formalizzazione di un canone, nella definizione di un’estetica: la fotografia è un oggetto a sé che non rimanda ad altro, un’opera conchiusa senza più rimandi alla realtà ritratta. E così sono le fotografie presentate in questo volume: oggetti conchiusi, “autoritratti del fotografo”, secondo la definizione della Lange, testimoni di un voyeurismo magico e medianico senza che per questo incappino nell’enigma funebre che vuole la fotografia testimone di ciò che non è più (Barthes). Anzi queste fotografie sembrano testimoniare ciò che è sempre, e cioè l’altra metà della festa, la permanenza degli spiriti che, sganciati dal contesto (e quindi dallo sfondo), presiedono e partecipano esausti all’ennesima replica di un canovaccio immutabile che sottende e sostiene il festivo che invece passa e si trasforma.
E’ così che Enzo Rampolla ritrova e fissa l’altra faccia di San Matteo, quella che lui intuisce e celebra negli spettrali impasti dei valori tonali, nelle pose sovrapposte, negli sfondi neri da cui fuoriescono attoniti gli attori. Un’altra faccia che in sé rimanda allo spirito divaricato dell’unità originaria nel suo duplice aspetto contrastante. E che lascia aperta la considerazione che non è la coscienza che ha dubbi, ma è il dubbio, come scoperta del duplice, che dischiude la coscienza.